L’omosessualità è una patologia?
La moderna concezione dell’omosessualità può essere fatta risalire alla seconda metà dell’Ottocento, quando, da problema religioso, morale e giuridico, l’interesse per i comportamenti sessuali diventa oggetto di indagine scientifica.
Prima di allora e fino agli inizi del ‘900 era prevalente e quasi esclusivo, anche in ambiente scientifico, il paradigma di identificazione dell'omosessualità con una patologia psichiatrica che quindi, in quanto tale, andava “curata”. L’obiettivo era perciò la guarigione e a tal fine erano state impiegate varie tecniche, ritenute utili a “normalizzare” comportamenti ritenuti devianti. Oltre ad interventi chirurgici veri e propri (lobotomia o clitoridectomia, ad esempio) venivano applicate le cosiddette “riparative”, o “ricostitutive” o “di conversione”. Nate negli Stati Uniti negli anni Novanta, nonostante si fossero già sviluppati i processi di emancipazione e piena valorizzazione di sé delle persone omosessuali, le terapie riparative vestivano di abiti nuovi i vecchi pregiudizi, ribadendo la natura patologica dell’omosessualità.
Nonostante negli ultimi anni molto sia stato fatto nel senso della tolleranza e della non discriminazione delle persone omosessuali, esiste comunque ancora un enorme grado di oppressione e di ostilità nei confronti di persone gay o lesbiche, percepite come “pericolose” dalle società “eterosessiste”. Perciò, anche se l’omosessualità non è più considerata una patologia, il paziente omosessuale è portatore di un’enorme sofferenza psicopatologica derivante dall’oppressione sociale, dallo stigma e dalle colpevolizzazioni indotte da visioni religiose e regole di convivenza ancora poco tolleranti e fortemente discriminanti.
Spesso la persona omosessuale deve confrontarsi con elementi di svalorizzazione a livello familiare, scolastico e lavorativo che vanno progressivamente a intaccare i suoi nuclei di autostima e di autoefficacia, ripercuotendosi negativamente sulla sua percezione di sé e sul suo funzionamento sociale. La persona omosessuale deve quindi fare i conti non solo con i comportamenti omofobici degli altri, ma anche con quelli propri.
Che cos’è l’omofobia?
L’ “omofobia” è la paura ingenerata da quella serie di pregiudizi e di discriminazioni cui deve confrontarsi la persona omosessuale, sia all’interno della propria famiglia, che in ambito lavorativo, che nella vita sociale. Weinberg (1972) fu il primo ad aver coniato questa parola e ne dà la seguente definizione: omofobia è un concetto che definisce la paura irrazionale, l’intolleranza e l’odio perpetrati nei confronti delle persone omosessuali (omofobia esterna) e l’atteggiamento di disprezzo che esse provano nei confronti di sé stesse (omofobia interna o interiorizzata).
Identità omosessuale e coming out
La persona omosessuale che vive in maniera egodistonica la propria omosessualità, può imparare ad accettare il proprio orientamento sessuale. Ciò può avvenire attraverso un percorso di apprendimento che implica abituarsi a sentire e manifestare attrazione verso persone del proprio sesso, esercitarsi nella alla pratica sessuale con persone del proprio sesso, ma implica anche la presa di coscienza della propria identità omosessuale.
La formazione dell’identità omosessuale è perciò un processo di costruzione comportamentale e cognitiva che ne presuppone un altro, che è quello dell’ “emersione”, dell’uscire allo scoperto, del rivelarsi agli altri come omosessuale. Con espressione inglese è definito coming out (of closet) e rappresenta il cammino di apertura, di automanifestazione, di asserzione della propria “diversità” sia rispetto a sé stessi che rispetto alla propria presenza nella società.